Facile/difficile

Ricordo un tempo in cui le cose, adesso difficili, sembravano facili,
e un tempo in cui le cose, adesso facili, sembravano difficli;
ciò che non ricordo, è un tempo in cui tutto era facile...
si vede che deve ancora arrivare.. (o no?)

IL SUO RIFLESSO

IL SUO RIFLESSO  
Lo aveva fatto a causa delle convenzioni sociali, non per se stesso, ma per gli altri e, se fosse stato in sé in quel momento, questo lo avrebbe fatto sentire incoerente, finto, ma non era in sé, quindi si sentì perfetto.
Se solo avesse saputo che il motivo per cui lo aveva fatto non interessava a nessuno, forse non lo avrebbe fatto, o forse lo avrebbe fatto comunque ma con uno spirito diverso.
Iniziò a pensare a quando tutto ebbe inizio, ultimamente ci pensava spesso, era quasi un'ossessione, setacciava i suoi ricordi alla ricerca di qualcosa che neanche lui sapeva.
Quando il suo era ancora un corpo "normale", osava dire "perfetto nella sua ordinarietà", non era particolarmente bello, nessuna si sarebbe voltata a guardarlo, ma a qualcuna piaceva e questo gli bastava per mantenere ad un buon livello la sua auto stima.
Poiché per lui l'autostima si poteva solo misurare attraverso gli occhi degli altri, non i propri, d'altra parte questo è un errore comune ed è inevitabile.
"Se vivessi su un'isola e fossi l'unico abitante, mi importerebbe?" si chiese squadrandosi allo specchio "certo che no! Ma sono sulla terra ferma e non sono solo, questo è il problema..".
Guardò il lavandino, ogni pezzo era perfettamente pulito.

Era estate quando si rese conto per la prima volta che qualcosa stava cambiando. Era in piscina. Uscendo dall'acqua si vide riflesso su una vetrata. Qualcosa era “assente”. Strizzò gli occhi per guardare meglio, ma niente, non riusciva a capire. Era come quando scrivendo invertiva due lettere, poi riguardando la parola sentiva che c'era qualcosa fuori posto, ma finché non la riguardava lettera per lettera, non individuava l'errore. Percepire qualcosa fuori posto, senza sapere cosa.
Si perse nei propri occhi riflessi dal vetro, proprio come ora, davanti allo specchio.
Gli occhi bruciavano, era perché aveva smesso di sbattere le palpebre o il cloro della piscina? Li strofinò, qualcuno lo chiamò alle sue spalle, si distrasse dai suoi pensieri e se ne allontanò.
Questo fu per lui il punto d'origine.
Alcuni mesi dopo il disagio si fece più palese. Aveva solo vent'anni.
Il primo dottore lo calmò, dicendo che non era niente, si focalizzò invece su qualcosa di più evidente.
Il secondo capiva cosa c'era che non andava ma non sapeva il perché, consigliò un placebo.
Il terzo lo spinse a fare delle analisi, ma i risultati furono inconcludenti. Lui stava bene.
Gli anni passarono ed ogni anno egli non smise mai di cercare, un dottore si susseguì all'altro, uno più specifico dell'altro, ma sempre senza risultati.
Erano passati sei anni da quell'estate in piscina. Ora vedeva la differenza con tale chiarezza che era diventata un punto fermo della sua vita. Non usciva di casa senza passare davanti allo specchio, non parlava con nessuno senza prima aver controllato il suo aspetto nei minimi dettagli.
Meticolosità è un termine che si lega a doppio laccio con ossessione.
C'era una ritualità quasi religiosa in quello che faceva, in quel susseguirsi di gesti ritrovava un po' di tranquillità.
Nel tempo aveva perso la fiducia nella medicina, in ogni sala d'aspetto in cui era stato aveva lasciato un pezzo di speranza sfogliando una rivista.
Per questo fu sorpreso quando il decimo dottore, per primo, diede la diagnosi.
In quell'istante si rese conto quando fosse importante un nome. A volte conoscere un nome, ci da un senso di maggiore controllo, soprattutto se quel nome lo si è cercato a lungo.
In quella parola gravavano sei anni di dottori, di sale d'aspetto, di prelievi, di ansie, di impotenza e di specchi.
Quel senso di forza e possessione si dissolse ben presto appena scoprì che non c'era una cura.
Avrebbe voluto prendere quella parola, schiaffarla in un panino e mangiarla. Frantumarla tra i denti, renderla poltiglia, deglutirla, digerirla ed espellerla. Ma non poteva.
Tornò a guardarsi allo specchio come prima. Sapeva che quella cosa aveva a che fare solo con il suo aspetto fisico, che non lo rendeva inabile, che non era trasmissibile e non causava la morte, ma non poteva smettere di pensarci.

Un giorno uscito da un drugstore conobbe una ragazza. Non era particolarmente bella, né istruita, ma c'era qualcosa nel suo carattere che lo fece innamorare. Si videro spesso nei seguenti giorni.
Dopo una settimana lei gli chiese del suo problema, di punto in bianco.
A lui si gelò il sangue. Si irrigidì, stitico di parole rispose sforzandosi di non dare peso alla cosa. Si nascose dietro un dito, pensando di essere invisibile. Ma era nudo.
Quella notte lei dormiva accanto a lui. Lui non dormiva. Si alzò a prendere un bicchiere d'acqua dal bagno adiacente. Lo specchio malamente illuminato lo rifletteva, i suoi occhi stanchi bruciavano, come quella volta in piscina. Ancora una volta non sapeva se era perché si era dimenticato di sbattere gli occhi o era la stanchezza. Sbatté gli occhi e lasciò la stanza. Tornato in camera la guardò per un attimo, posò il bicchiere sul comodino.
Mise un ginocchio sul letto, con la mano sinistra afferrò un cuscino. Lo pose sopra il volto di lei, Elise sembrò iniziare a svegliarsi, ma in quel momento anche la mano destra afferrò il cuscino. Il suo corpo contratto era diventato un macigno. Lei si agitava convulsa. Lo graffiò sulle braccia e sul volto. Per un attimo le sue mani sembrarono venir meno, ma furono solo pochi istanti. Spinse fino a quando tutto non fu calmo.
Tolse il cuscino.
Vedere il volto di lei lo inorridì. Cadde dal letto. Rialzatosi corse in bagno, accese la luce, lo specchio gli mostrò il mostro. Il viso paonazzo, la pelle sudata, i pori aperti e gli occhi rossi. Si sciacquò il viso. Chiuse gli occhi. Si concentrò, quella frenesia si pensieri e sentimenti poteva essere messo in ordine solo grazie alla creazione di un rito provvisorio. Ordinò i pensieri prima in pochi concetti, poi in una lista di priorità.
La doccia fu la prima cosa.
Ne uscì meno sudato, ma non meno sporco. I suoi occhi bruciavano.
Tornò nella camera da letto. Albeggiava. Alcuni raggi di luce colpivano il corpo scomposto di lei.
Il suo corpo, benché senza più vita, era perfetto.
Lui fece un caffè. Lo sorseggiò mentre la guardava. Lavò la caffettiera e il bicchiere, ripose il cucchiaino nel cassetto e cercò il coltello per la carne. Non lo trovò, si chiese stizzito dove fosse finito, ma non lo ricordò, così prese un coltello da pesce.
Salì in camera. Ancora nudo, con l'asciugamano legato alla vita affondò il coltello nel corpo di lei.
Il coltello faticava a tagliare, d'altra parte quello non era un pesce. L'asciugamano si slegò, cadendo sul letto.
Dopo un'ora era tutto lì disposto sul letto. Ciò che le aveva rubato era quello che lui aveva perso a causa del suo problema. Gli occhi bruciavano da impazzire. Li sfregò, ma le mani erano ricoperte di sangue e non fece altro che peggiorare la situazione.
Portò tutto in bagno, sciacquò tutto, con meticolosità.
Prese quei brandelli e li “provò”.
Era di nuovo perfetto.
Per la prima volta dopo anni si sentiva normale, poteva uscire senza preoccuparsi.
Scese le scale che portavano alla porta d'ingresso. Per la prima volta non si controllò allo specchio accanto alla porta. Afferrò la maniglia, aprì la porta. Il suo corpo nudo al sole sembrava brillare.
La strada di periferia era poco trafficata, d'altra parte erano le sei del mattino.
I suoi occhi bruciavano, ma questa volta sapeva che era a causa del sole.
Con passo solenne uscì, sicuro di sé come non era da anni.

Il circo Doria


IL CIRCO DORIA

La neve cadeva lentamente sul quartiere di periferia. I tetti, un tempo rossi, erano diventati bianchi e dalle grondaie pendevano stalattiti di ghiaccio.
Sophie sgattaiolò furtiva dalla porta. La strada era diventata soffice e brillante, ai bordi le piccole villette a schiera sembravano ripetersi all'infinito. Iniziò a correre.
Smettetela di litigare!” ripeteva con insistenza. Corse fino alla fine della strada. Oltre c'era solo il bosco, nero e intricato. Si voltò indietro verso la sua casa, poi tornò a guardare davanti, fece un passo indietro intimorita. Un colpo di vento le rubò il cappello che si spinse all'interno del bosco.
Lo inseguì cercando di riprenderlo, quando poté afferrarlo alle sue spalle gli edifici erano scomparsi, inghiottiti dalla ragnatela di rami secchi. Strinse tra le mani il berretto rosso, ancora umido. I fiocchi di neve si facevano spazio tra gli alberi. Si guardò intorno, non sapeva cosa fare, né quale strada prendere, si mise il cappello in testa. Alzò gli occhi al cielo cercando la luna, i suoi raggi a stento riuscivano a filtrare, improvvisamente le sembrò di sentire flebili alcune note di una melodia, quando abbassò lo sguardo vide che c'era un grande albero, proprio di fronte a lei. Le sue radici sembravano tuffarsi ed emergere come cetacei di terra.
Si chiese se quella pianta fosse appena apparsa perché non ricordava di averla notata prima, camminò verso l'albero e più si avvicinava e più la musica cresceva. Trombe, violini e tamburi suonavano gioiosamente. Timidamente toccò il tronco, il muschio che lo ricopriva per l'intera metà destra era umido e soffice, un'edera rampicante avvolgeva a spirale l'intera pianta dalle radici fino ai rami più alti. La musica non accennava a diminuire, e un coro di voci allegre ripetevano sempre le stesse strofe. Sophie avvicinò l'orecchio, la canzone sembrava provenire dall’interno dell’albero.

La festa è iniziata, la festa è iniziata,
la carovana si è fermata
la tenda è montata.
Vieni anche tu, vieni con noi,
vieni a giocare se lo vuoi.”

La sua curiosità le fece dimenticare la paura che aveva provato poco prima, quando aveva capito di aver perso la strada di casa. Mentre ascoltava la musica vide luccicare tra l'edera, spostò i rami e scoprì una piccola maniglia d'argento. Sembrava vecchia, come se non fosse stata toccata da nessuno per molti anni, al centro vi era una grande “C” instritta iin una “D” circondata da finissimi decori che ricordavano le foglie d'acanto. Sophie l'afferrò e lentamente la girò. Improvvisamente la grande pianta rampicante ritirò le proprie radici, scoprendo una piccola porta rotonda, che si aprì scricchiolando e spezzando il muschio che l'aveva ricoperta, alcune ragnatele caddero a terra senza far rumore. La musica aumentò. Una luce abbaiante proveniva dall'apertura, pian piano gli occhi della bambina si abituarono a quel bagliore e finalmente si poté vedere cosa ci fosse oltre la porta.
Un grande tendone dai colori un tempo sgargianti era al centro di un piccolo spiazzo. “La musica proveniva certamente da lì” pensò Sophie che non sapeva se entrare oppure no. Rimase sull'uscio per alcuni secondi, era così curiosa e quella musica sembrava così allegra, in più dall'albero usciva un leggero tepore, che riscaldava la sua pelle come il sole nel mese di giugno. “Se entro per pochi minuti non accadrà nulla, in fondo ormai mi sono persa e qui fuori è così freddo...” si disse prima di entrare.
Il piazzale sterrato dai colori pastello, si estendeva a vista d’occhio. La bambina continuò a camminare verso la struttura. L'imponente tendone a grandi righe gialle e fucsia ormai sbiadite, sembrava una gloria di tempi ormai lontani, la bandiera dalla doppia coda, in cima al palo centrale, si muoveva trasportata dal vento, solleticando il cielo. La bambina entrò nella struttura. Dentro non c'era nessuno, alcune sedie arrugginite erano state disposte in ordine, al centro un grande palcoscenico. Si fermò a guardare il grande ambiente, quando sentì di nuovo la fanfara al di fuori della struttura. Corse fuori, quando uscì vide in un recinto un elefante con un copricapo rosso, decorato con perline e lustrini, l'animale alzò la proboscide e piegò la zampa destra inchinandosi. Un forte barrito risuonò e la musica si interruppe. Cadde il silenzio, si udiva solo il frusciare vento. Sophie continuò a camminare, oltre un vecchio caravan in legno, verniciato di rosso e decorato con motivi di fantasia dorati, vide una piccolo gazebo, al disotto del quale alcuni tavoli ed alcune panche formavano la mensa del posto. Lo stomaco della bambina gorgogliò, lentamente iniziò ad avanzare verso i tavolini, da un grande pentolone fuoriusciva un profumo che lei riconobbe “è lo stesso odore dello spezzatino della mamma” disse. Mentre muoveva i primi passi con la coda dell'occhio le sembrò di vedere qualcuno, una bellissima donna, dai lineamenti francesi uscì da dietro un carro, e dopo di lei un'altra identica, le due indossavano un solo vestito unito all'altezza dell'ombelico, tre eleganti gambe si mossero con la delicatezza di un balletto. La piccola si voltò senza smettere di camminare, quattro occhi gentili la guardarono e due bocche le sorrisero dolcemente. Dopo cinque o sei passi arrivarono due uomini, uno sulle spalle dell'altro, indossavano dei calzoni bianchi aderenti e delle canotte a righe bianche e celesti. La salutarono, alzando la mano e muovendola lentamente. Mano a mano che proseguiva altri si mostrarono. Una donna con una lunga barba che indossava un sontuoso vestito zigano. Un clown dal volto bianco e con delle piccole lacrime disegnate sotto gli occhi. Un baffuto domatore con dei pantaloni da cavallerizzo rossi e una giacca dai bottoni d'oro abbinata ai calzoni. Una bellissima donna dai lunghissimi capelli neri, che ella stessa teneva attorcigliati in un grande gomitolo. Un muscoloso uomo in tenuta da tarzan. Ed in fine un elegante nano accompagnato da un uomo altissimo. Sophie era ormai giunta alla mensa, l'uomo colossale era proprio davanti al calderone con lo spezzatino. Il gigante prese un piatto, aprì il coperchio del pentolone, un enorme nuvola di fumo fuoriuscì dileguandosi in pochi attimi, il mestolo si caricò di cibo e poi ricadde sulla stoviglia facendo un rumore metallico. La bambina prese il cibo e si sedette sulla panca, fu allora che tutti gli altri si mossero verso di lei, disponendosi in cerchio, osservandola con amore.
Tra tutti solo il gigante si sedette di fronte a lei “Benvenuta, io sono Everet” disse con voce profonda.
Buongiorno.. mi chiamo Sophie” rispose la bambina sorridendo.
Il gruppo la guardava tra la curiosità e la riverenza.
Scusaci, era tanto che non vedevamo una come te...” molti annuirono rimarcando le sue parole.
Come me?”.
Uno spettatore! Neanche ricordiamo quando abbiamo visto l'ultimo...”esclamò con accento esteuropeo.
Perché?” chiese innocentemente.
non sappiamo perché, forse abbiamo perso la magia che avevamo un tempo... forse siamo stati dimenticati...” alcuni chinarono gli occhi malinconicamente.
Capisco” poi guardandosi intorno “ma voi chi siete?”.
Tutti furono sgomento.
Noi siamo il Circo” spiegò il gigante alzandosi “noi siamo lo spettacolo antico... siamo la magia che c'è nell'uomo... noi siamo i sogni che divengono realtà!” poi inspirò fortemente ed alzando le braccia al cielo disse “NOI SIAMO I DORIA”.
Sophie era perplessa, si guardò intorno, poi sembrò capire “voi siete la televisione!”.
Ognuno cercò negli occhi dell'altro la risposta a una domanda che accomunava tutti e che solo una delle due donne siamesi ebbe il coraggio di porre “cosa è la televisione?”.
La televisione porta la magia nelle vostre case!” rispose la bambina citando uno slogan “ questo è quello che dice il signore della pubblicità!”.
Uno dei trapezisti si avvicinò al gigante, fece alcuni gesti veloci, Everet annuiva poi si voltò verso la bambina “i trapeziti chiedono cosa fa la televisione?”.
la televisione fa vedere le cose, ci sono le storie, ci sono le persone che cantano...”.
Tutti sembrarono capire.
Quindi è un cantore! Una persona che canta e racconta storie!”
Mannò!” esclamò Sophie che iniziava ad essere stanca di spiegare una cosa tanto ovvia “non è una persona, è una cosa.. una scatola di plastica con il vetro da una parte e dentro ci sono le immagini...”.
La compagnia fu di nuovo disorientata. Tra tutti loro Egate, l'uomo muscoloso, prese un asta di ferro “ma sa fare questo?” dopodiché la piegò su sé stessa.
E questo lo sa fare?” chiese il clown gonfiando un palloncino e trasformandolo in un cagnolino.
Dopo di loro altri mostrarono le loro abilità, le due donne fecero alcuni passi di danza leggiadre, i trapezisti si cimentarono in alcune acrobazie.
Sophie applaudiva entusiasta. Quando il piccolo spettacolo terminò Everet le chiese “la televisione sa fare queste cose?”.
La bambina rispose di no con la testa. Uno dei trapezisti corse allegro verso la donna barbuta, dopo averle detto qualcosa con il linguaggio dei gesti, la francesina disse “Emiliano ha ragione! Facciamo uno show per la nostra spettatrice!”. La proposta fu accolta con generale felicità.
E' deciso! Sophie, questa sera i Doria si esibiranno per te!”.

In meno di tre ore il sole era tramontato ed ognuno era pronto per esibirsi.
Al centro del palco il gigante vestito in livrea rossa presentò il primo spettacolo “Benvenuti allo spettacolo del CIRCO DORIA! Dalla Francia le gemelle Marise e Michelle Delacroix!” con un gesto ampio del braccio destro si allontanò dal centro della pista. Le due sorelle entrarono elegantemente, un faro le illuminava lasciando nel buio tutto il resto, dopo alcuni passi di danza eseguirono alcune coreografie snodabili, i loro corpi flessibili e delicati si piegavano e si attorcigliavano lentamente. Dopo di loro vennero presentati Fernando il domatore, con i due leoni e l'elefante. Seguì Friedrich il clown, che creò nuovi animali con i palloncini ed eseguì alcune gag divertenti. Poi fu il turno di Egate che piegò aste di ferro, ruppe catene e sollevò oggetti pesanti. In fine arrivarono i trapezisti, che si lanciarono in pericolose acrobazie volanti.
Sophie rise, si commosse, si emozionò come non le era mai capitato prima.
Quando lo show si concluse la bambina applaudì e tutti tornarono sul palco per inchinarsi in un commosso saluto finale. Sophie era così felice con loro, così tanto da decidere di fermarsi.
I giorni passarono, ogni sera c'era uno spettacolo, ogni sera era più bello di quello precedente. Ma più il tempo passava e più Sophie sentiva la mancanza dei suoi genitori.
Una mattina mentre aiutava Marise e Michelle a scegliere cosa indossare sentì una voce lontana.
Sophie!! Sophie dove sei?!?” insieme a quella voce che lei riconobbe come quella di sua madre sentì dei cani abbaiare. La bambina uscì correndo dalla carovana “è la mamma! È la mamma che mi sta cercando!” gridò ansimando. Le due sorelle la guardarono malinconiche, sapevano che il momento di separarsi era vicino. In poco tempo tutti interruppero le proprie attività, e si avvicinarono alla bambina, ognuno di loro aveva sentito quella voce chiamarla.
Lei si voltò a guardarli “devo andare... mamma e papà saranno preoccupati...” tutti la guardarono tristi, Sophie capì che fare ritorno a casa significava non poter rivedere il circo. “se me ne vado non potrò tornare, vero?”. Everet si fece spazio tra gli altri “Si, non potrai più venire... questo sarà un addio...”. Delle lacrime le scesero sul viso.
Ma... ma non è giusto!...”
Non è una questione di giusto o sbagliato...” disse asciugandole gli occhi “sei stata per noi il segno che c’è la speranza …”
Tutti in fila la guardarono andare via, Everet l'accompagnò per alcuni passi, poi si fermò, si chinò a terra e le strinse la mano “Non ti dimenticheremo...”.
Non importa se diventerò grande, non vi dimenticherò …”ripose sorridendo poi proseguì da sola.
Improvvisamente Marise e Michelle urlarono “No, non te ne andare!”.
Ma la bambina era troppo lontana per sentirle.

Pian piano il paesaggio brullo divenne una foresta, Sophie continuò a camminare, quando incontrò lo stesso albero che aveva incontrato mesi prima, aprì la porticina. Oltre l’apertura si udiva la voce dei suoi genitori che la chiamavano, si voltò e vide in lontananza il circo, si asciugò gli occhi umidi poi attraversò la porta.

Nessuno ha più incontrato il Circo Doria. Qualche bambino racconta di aver visto un albero diverso dagli altri, ma nessuno ha tentato di trovare la porta con la maniglia d’argento, tutti sono tornati a casa a guardare la televisione.
I bambini desiderano ancora la magia, ma la cercano in un programma tv, nelle loro case, suoi loro divani, dimenticando che la magia è fuori, nei boschi, negli alberi, nelle persone.

Degli orsi e degli uomini



Degli orsi e degli uomini



Per gli orsi l'inverno era il tempo delle lunghe dormite. Ma, quell'anno, tutto sarebbe stato diverso. L'estate era stata molto calda e gli orsi avevano faticosamente trovato le provviste per l'inverno.

Ogni anno quando ad ottobre la temperatura inizia a scendere, i dodici orsi rossi delle montagne abruzzesi, si rifugiarono al centro della vecchia foresta. La foresta, che oggi fa parte del parco nazionale, all'epoca in cui è ambientato questo racconto, era una distesa di alberi e terre incolte, e ogni uomo o donna evitava di entrarci; per questo gli orsi si sentivano al sicuro.

Il dieci di ottobre mentre tutti e dodici gli orsi dormivano profondamente un rombo riecheggiò nella vallata, svegliandoli bruscamente. Il rumore era partito da un fucile, ma gli orsi non avevano mai sentito il rumore che fa la polvere da sparo quando eietta un proiettile. Era come un tuono, ma più stridulo, più freddo. Uscirono tutti per capire cosa fosse. Fermi e in silenzio tesero le orecchie al cielo e subito ne sentirono un altro. Alcuni di loro scattarono in dietro, verso le loro tane. Altri rimasero con le orecchie tese, e le zampe ben piantate nella neve. Ma vi fù solo silenzio e dopo un'ora tornarono tutti a dormire.

L'indomani un nuovo sparo irruppe nella foresta. Alcuni corvi si librarono. I corvi con alcuni battiti d'ali possono allontanarsi da ogni problema. Lanciando urla rauche che si perdono nel vuoto. Ma, gli orsi, loro non possono volare via, e diciamocelo, loro non vogliono andare via. Così i dodici orsi ormai svegli, si misero in cerchio.
Dopo una lunga riunione decisero che due di loro sarebbero dovuti uscire a scoprire cosa fossero quei rumori. Tra tutti vennero scelti il più piccolo e il più grande di loro. Il più piccolo sarebbe dovuto scendere a valle mentre il più grande salire a monte.

Dopo un giorno di ricerche l'orso più piccolo giunse a valle, e tra gli alti aceri vide un uomo vestito di verde. L'uomo teneva tra le mani quello che l'orso definì come " un tronco di legno rilucente". L'uomo camminava lentamente affondando i piedi nella neve, fino alle ginocchia. L'orso lo guardò inclinando la testa, benché sapesse che cosa fosse, era la prima volta che vedeva un animale di quella specie.
"Che strano animale, ha perso quasi tutto il pelo deve essere malato!" pensò tra sé e sé. Iniziò a seguirlo. 
Nel frattempo anche il grande orso trovò un uomano ma questo era vestito di marrone a chiazze " Che buffo animale, si copre di foglie!" pensò e lo seguì.


Il giorno dopo all'alba i due uomini fecero colazione, mangiarono un pezzo di carne secca e si rimisero in viaggio. Camminavano lentamente e sempre con il fucile tra le mani, continuavano a guardarsi intorno. Gli orsi, che come tutti gli animali sentono la paura, sentivano che i due uomini avevano terribilmente paura di qualcosa. Ma non capivano perchè, poiché gli esseri più spaventosi nella foresta erano proprio loro!
Mentre l'uomo a valle saliva quello a monte scendeva. I due orsi conoscevano bene la montagna e sapevano che ogni ora che passava i due uomini si avvicinavano sempre di più alla tana dove riposavano gli altri dieci orsi. Ma cosa avrebbero dovuto fare, cosa era giusto fare? Spaventarli, farli scappare o ucciderli. Quando la necessità di proteggere il proprio territorio diventava un motivo giustificabile per uccidere un'altro animale? 

Nel tardo pomeriggio del terzo giorno i due uomini erano ad un solo chilometro dalla tana e l'orso più grande corse ad avvertire i loro compagni. Le sue zampe affondavano nella neve che scrocchiava comprimendosi a sbriciolandosi. Iniziò a nevicare ed in breve tutto fu ricoperto. A terra la neve brillava e le divise dei due uomini risaltavano.
L'uomo seguito dall'orso piccolo, si immobilizzò, i suoi occhi iniziarono a muoversi freneticamente, le sue mani strinsero il fucile, la pelle dei suoi guanti stridette a contatto con l'accaio. Aveva visto qualcosa, e ben presto l'orso vide la stessa cosa. A pochi metri di distanza c'era un altro umano, magro, ingobbito con la barba ruvida.
Anche lui lo vide. Si guardarono senza muoversi per un tempo che sembrò infinito, alcuni fiocchi iniziarono a cadere dal cielo. L'orso più grande tornato indietro, li trovò ancora fermi, a guardarsi. Tremavano irrigiditi e contratti. Una zampa affondandosi nella neve puà fare un rumore assordante se c'è silenzio. I due uomini vibrarono all'unisono imbracciando il fucile. Come se il fucile fosse l'estenzione dei loro muscoli. Tremavano le braccia, vibrava il fucile.
Lo videro, era un orso. Per un momento non sapevano più quale fosse il pericolo maggiore. Per un momento loro erano alleati e l'orso era il nemico. E' proprio vero che ci si allea con chi è diverso solo quando si deve combattere qualcosa di maggiormente diverso, questo è estremamente umano.

Un rombo. L'orso fuggì. Rimasero di nuovo da soli. Riscoprirono le loro diversità e nulla sembrò essere cambiato. Anche questo è terribilmente umano.
Le armi erano pronte, loro erano pronti. Alcune urla, senza senso ma piene di odio. Due colpi all'unisono. Come antichi alberi ormai atrofizzati crollarono a terra. Le gambe scomposte, la neve un tempo pura era ormai macchiata. Rosso su bianco come un ombra si espande, poi la terra assorbe tutto senza dire nulla.

L'orso piccolo tornò alla tana. Fù facile raccontare gli avvenimenti, fù impossibile spiegare le azioni. Poi tornarono tutti a dormire, tranquilli.
La terrà inghiottì i resti e alla fine dell'inverno fù come se fosse stato tutto parte di un sogno.

Look, Run and Stop

Look, run and stop

Dreams are Life's placebo.
She wokes up dreaming to sleep.
She looks up but feels down
Nothing more, nothing less
of what she already had

History is just Apocalyp's omen
Mutation againest mutilation
Change or break
Bones on flash
Clash and smash

Time runs witout Fast
'No more runs' she said
She tides up her trainers
Nothing more, nothing less
of what she already done

History is just Apocalyp's omen
Mutation againest mutilation
Change or break
Bones on flash
Clash and smash

Walls can melt too
She stop crashing down
blood on the briks
Nothing more, nothing less
of what she already lost

Perchè?

Il perché non è importante. Il perché sarebbe ridondante.

Cosa, allora, è veramente importante?

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Sbagliare è umano, tanto quanto ridere, quindi se sbaglio perdonatemi come perdonate una risata fuori luogo.
E se persevero, condannatemi con clemenza e affetto.


Non ricerco la forma ma il contenuto. Non rileggo quello che scrivo, ma penso e ripenso a cosa voglio dire.