Ricordo un tempo in cui le cose, adesso difficili, sembravano facili,
e un tempo in cui le cose, adesso facili, sembravano difficli;
ciò che
non ricordo, è un tempo in cui tutto era facile...
si vede che deve
ancora arrivare.. (o no?)
Writing Down My Stuff - Scrivendo le Mie Cose
IL SUO RIFLESSO
IL
SUO RIFLESSO
Lo aveva fatto a causa delle
convenzioni sociali, non per se stesso, ma per gli altri e, se fosse
stato in sé in quel momento, questo lo avrebbe fatto sentire
incoerente, finto, ma non era in sé, quindi si sentì perfetto.
Se solo avesse saputo che il motivo per cui lo aveva fatto non interessava a nessuno, forse non lo avrebbe fatto, o forse lo avrebbe fatto comunque ma con uno spirito diverso.
Iniziò a pensare a quando tutto ebbe inizio, ultimamente ci pensava spesso, era quasi un'ossessione, setacciava i suoi ricordi alla ricerca di qualcosa che neanche lui sapeva.
Quando il suo era ancora un corpo "normale", osava dire "perfetto nella sua ordinarietà", non era particolarmente bello, nessuna si sarebbe voltata a guardarlo, ma a qualcuna piaceva e questo gli bastava per mantenere ad un buon livello la sua auto stima.
Poiché per lui l'autostima si poteva solo misurare attraverso gli occhi degli altri, non i propri, d'altra parte questo è un errore comune ed è inevitabile.
"Se vivessi su un'isola e fossi l'unico abitante, mi importerebbe?" si chiese squadrandosi allo specchio "certo che no! Ma sono sulla terra ferma e non sono solo, questo è il problema..".
Se solo avesse saputo che il motivo per cui lo aveva fatto non interessava a nessuno, forse non lo avrebbe fatto, o forse lo avrebbe fatto comunque ma con uno spirito diverso.
Iniziò a pensare a quando tutto ebbe inizio, ultimamente ci pensava spesso, era quasi un'ossessione, setacciava i suoi ricordi alla ricerca di qualcosa che neanche lui sapeva.
Quando il suo era ancora un corpo "normale", osava dire "perfetto nella sua ordinarietà", non era particolarmente bello, nessuna si sarebbe voltata a guardarlo, ma a qualcuna piaceva e questo gli bastava per mantenere ad un buon livello la sua auto stima.
Poiché per lui l'autostima si poteva solo misurare attraverso gli occhi degli altri, non i propri, d'altra parte questo è un errore comune ed è inevitabile.
"Se vivessi su un'isola e fossi l'unico abitante, mi importerebbe?" si chiese squadrandosi allo specchio "certo che no! Ma sono sulla terra ferma e non sono solo, questo è il problema..".
Guardò il lavandino, ogni pezzo era
perfettamente pulito.
Era estate quando si rese conto per la
prima volta che qualcosa stava cambiando. Era in piscina. Uscendo
dall'acqua si vide riflesso su una vetrata. Qualcosa era “assente”.
Strizzò gli occhi per guardare meglio, ma niente, non riusciva a
capire. Era come quando scrivendo invertiva due lettere, poi
riguardando la parola sentiva che c'era qualcosa fuori posto, ma
finché non la riguardava lettera per lettera, non individuava
l'errore. Percepire qualcosa fuori posto, senza sapere cosa.
Si perse nei propri occhi riflessi dal
vetro, proprio come ora, davanti allo specchio.
Gli occhi bruciavano, era perché aveva
smesso di sbattere le palpebre o il cloro della piscina? Li strofinò,
qualcuno lo chiamò alle sue spalle, si distrasse dai suoi pensieri e
se ne allontanò.
Questo fu per lui il punto d'origine.
Alcuni mesi dopo il disagio si fece più
palese. Aveva solo vent'anni.
Il primo dottore lo calmò, dicendo che
non era niente, si focalizzò invece su qualcosa di più evidente.
Il secondo capiva cosa c'era che non
andava ma non sapeva il perché, consigliò un placebo.
Il terzo lo spinse a fare delle
analisi, ma i risultati furono inconcludenti. Lui stava bene.
Gli anni passarono ed ogni anno egli
non smise mai di cercare, un dottore si susseguì all'altro, uno più
specifico dell'altro, ma sempre senza risultati.
Erano passati sei anni da quell'estate
in piscina. Ora vedeva la differenza con tale chiarezza che era
diventata un punto fermo della sua vita. Non usciva di casa senza
passare davanti allo specchio, non parlava con nessuno senza prima
aver controllato il suo aspetto nei minimi dettagli.
Meticolosità è un termine che si lega
a doppio laccio con ossessione.
C'era una ritualità quasi religiosa in
quello che faceva, in quel susseguirsi di gesti ritrovava un po' di
tranquillità.
Nel tempo aveva perso la fiducia nella
medicina, in ogni sala d'aspetto in cui era stato aveva lasciato un
pezzo di speranza sfogliando una rivista.
Per questo fu sorpreso quando il decimo
dottore, per primo, diede la diagnosi.
In quell'istante si rese conto quando
fosse importante un nome. A volte conoscere un nome, ci da un senso
di maggiore controllo, soprattutto se quel nome lo si è cercato a
lungo.
In quella parola gravavano sei anni di
dottori, di sale d'aspetto, di prelievi, di ansie, di impotenza e di
specchi.
Quel senso di forza e possessione si
dissolse ben presto appena scoprì che non c'era una cura.
Avrebbe voluto prendere quella parola,
schiaffarla in un panino e mangiarla. Frantumarla tra i denti,
renderla poltiglia, deglutirla, digerirla ed espellerla. Ma non
poteva.
Tornò a guardarsi allo specchio come
prima. Sapeva che quella cosa aveva a che fare solo con il suo
aspetto fisico, che non lo rendeva inabile, che non era trasmissibile
e non causava la morte, ma non poteva smettere di pensarci.
Un giorno uscito da un drugstore
conobbe una ragazza. Non era particolarmente bella, né istruita, ma
c'era qualcosa nel suo carattere che lo fece innamorare. Si videro
spesso nei seguenti giorni.
Dopo una settimana lei gli chiese del
suo problema, di punto in bianco.
A lui si gelò il sangue. Si irrigidì,
stitico di parole rispose sforzandosi di non dare peso alla cosa. Si
nascose dietro un dito, pensando di essere invisibile. Ma era nudo.
Quella notte lei dormiva accanto a lui.
Lui non dormiva. Si alzò a prendere un bicchiere d'acqua dal bagno
adiacente. Lo specchio malamente illuminato lo rifletteva, i suoi
occhi stanchi bruciavano, come quella volta in piscina. Ancora una
volta non sapeva se era perché si era dimenticato di sbattere gli
occhi o era la stanchezza. Sbatté gli occhi e lasciò la stanza.
Tornato in camera la guardò per un attimo, posò il bicchiere sul
comodino.
Mise un ginocchio sul letto, con la
mano sinistra afferrò un cuscino. Lo pose sopra il volto di lei,
Elise sembrò iniziare a svegliarsi, ma in quel momento anche la mano
destra afferrò il cuscino. Il suo corpo contratto era diventato un
macigno. Lei si agitava convulsa. Lo graffiò sulle braccia e sul
volto. Per un attimo le sue mani sembrarono venir meno, ma furono
solo pochi istanti. Spinse fino a quando tutto non fu calmo.
Tolse il cuscino.
Vedere il volto di lei lo inorridì.
Cadde dal letto. Rialzatosi corse in bagno, accese la luce, lo
specchio gli mostrò il mostro. Il viso paonazzo, la pelle sudata, i
pori aperti e gli occhi rossi. Si sciacquò il viso. Chiuse gli
occhi. Si concentrò, quella frenesia si pensieri e sentimenti poteva
essere messo in ordine solo grazie alla creazione di un rito
provvisorio. Ordinò i pensieri prima in pochi concetti, poi in una
lista di priorità.
La doccia fu la prima cosa.
Ne uscì meno sudato, ma non meno
sporco. I suoi occhi bruciavano.
Tornò nella camera da letto.
Albeggiava. Alcuni raggi di luce colpivano il corpo scomposto di lei.
Il suo corpo, benché senza più vita,
era perfetto.
Lui fece un caffè. Lo sorseggiò
mentre la guardava. Lavò la caffettiera e il bicchiere, ripose il
cucchiaino nel cassetto e cercò il coltello per la carne. Non lo
trovò, si chiese stizzito dove fosse finito, ma non lo ricordò,
così prese un coltello da pesce.
Salì in camera. Ancora nudo, con
l'asciugamano legato alla vita affondò il coltello nel corpo di lei.
Il coltello faticava a tagliare,
d'altra parte quello non era un pesce. L'asciugamano si slegò,
cadendo sul letto.
Dopo un'ora era tutto lì disposto sul
letto. Ciò che le aveva rubato era quello che lui aveva perso a
causa del suo problema. Gli occhi bruciavano da impazzire. Li sfregò,
ma le mani erano ricoperte di sangue e non fece altro che peggiorare
la situazione.
Portò tutto in bagno, sciacquò tutto,
con meticolosità.
Prese quei brandelli e li “provò”.
Era di nuovo perfetto.
Per la prima volta dopo anni si sentiva
normale, poteva uscire senza preoccuparsi.
Scese le scale che portavano alla porta
d'ingresso. Per la prima volta non si controllò allo specchio
accanto alla porta. Afferrò la maniglia, aprì la porta. Il suo
corpo nudo al sole sembrava brillare.
La strada di periferia era poco
trafficata, d'altra parte erano le sei del mattino.
I suoi occhi bruciavano, ma questa
volta sapeva che era a causa del sole.
Con passo solenne uscì, sicuro di sé
come non era da anni.
Il circo Doria
IL CIRCO DORIA
La neve cadeva lentamente sul
quartiere di periferia. I tetti, un tempo rossi, erano diventati
bianchi e dalle grondaie pendevano stalattiti di ghiaccio.
Sophie sgattaiolò furtiva
dalla porta. La strada era diventata soffice e brillante, ai bordi le
piccole villette a schiera sembravano ripetersi all'infinito. Iniziò
a correre.
“Smettetela di litigare!”
ripeteva con insistenza. Corse fino alla fine della strada. Oltre
c'era solo il bosco, nero e intricato. Si voltò indietro verso la
sua casa, poi tornò a guardare davanti, fece un passo indietro
intimorita. Un colpo di vento le rubò il cappello che si spinse
all'interno del bosco.
Lo inseguì cercando di
riprenderlo, quando poté afferrarlo alle sue spalle gli edifici
erano scomparsi, inghiottiti dalla ragnatela di rami secchi. Strinse
tra le mani il berretto rosso, ancora umido. I fiocchi di neve si
facevano spazio tra gli alberi. Si guardò intorno, non sapeva cosa
fare, né quale strada prendere, si mise il cappello in testa. Alzò
gli occhi al cielo cercando la luna, i suoi raggi a stento riuscivano
a filtrare, improvvisamente le sembrò di sentire flebili alcune note
di una melodia, quando abbassò lo sguardo vide che c'era un grande
albero, proprio di fronte a lei. Le sue radici sembravano tuffarsi ed
emergere come cetacei di terra.
Si chiese se quella pianta
fosse appena apparsa perché non ricordava di averla notata prima,
camminò verso l'albero e più si avvicinava e più la musica
cresceva. Trombe, violini e tamburi suonavano gioiosamente.
Timidamente toccò il tronco, il muschio che lo ricopriva per
l'intera metà destra era umido e soffice, un'edera rampicante
avvolgeva a spirale l'intera pianta dalle radici fino ai rami più
alti. La musica non accennava a diminuire, e un coro di voci allegre
ripetevano sempre le stesse strofe. Sophie avvicinò l'orecchio, la
canzone sembrava provenire dall’interno dell’albero.
“La festa è iniziata, la
festa è iniziata,
la carovana si è fermata
la tenda è montata.
Vieni anche tu, vieni con noi,
vieni a giocare se lo vuoi.”
La sua curiosità le fece
dimenticare la paura che aveva provato poco prima, quando aveva
capito di aver perso la strada di casa. Mentre ascoltava la musica
vide luccicare tra l'edera, spostò i rami e scoprì una piccola
maniglia d'argento. Sembrava vecchia, come se non fosse stata toccata
da nessuno per molti anni, al centro vi era una grande “C”
instritta iin una “D” circondata da finissimi decori che
ricordavano le foglie d'acanto. Sophie l'afferrò e lentamente la
girò. Improvvisamente la grande pianta rampicante ritirò le proprie
radici, scoprendo una piccola porta rotonda, che si aprì
scricchiolando e spezzando il muschio che l'aveva ricoperta, alcune
ragnatele caddero a terra senza far rumore. La musica aumentò. Una
luce abbaiante proveniva dall'apertura, pian piano gli occhi della
bambina si abituarono a quel bagliore e finalmente si poté vedere
cosa ci fosse oltre la porta.
Un grande tendone dai colori
un tempo sgargianti era al centro di un piccolo spiazzo. “La musica
proveniva certamente da lì” pensò Sophie che non sapeva se
entrare oppure no. Rimase sull'uscio per alcuni secondi, era così
curiosa e quella musica sembrava così allegra, in più dall'albero
usciva un leggero tepore, che riscaldava la sua pelle come il sole
nel mese di giugno. “Se entro per pochi minuti non accadrà nulla,
in fondo ormai mi sono persa e qui fuori è così freddo...” si
disse prima di entrare.
Il piazzale sterrato dai
colori pastello, si estendeva a vista d’occhio. La bambina continuò
a camminare verso la struttura. L'imponente tendone a grandi righe
gialle e fucsia ormai sbiadite, sembrava una gloria di tempi ormai
lontani, la bandiera dalla doppia coda, in cima al palo centrale, si
muoveva trasportata dal vento, solleticando il cielo. La bambina
entrò nella struttura. Dentro non c'era nessuno, alcune sedie
arrugginite erano state disposte in ordine, al centro un grande
palcoscenico. Si fermò a guardare il grande ambiente, quando sentì
di nuovo la fanfara al di fuori della struttura. Corse fuori, quando
uscì vide in un recinto un elefante con un copricapo rosso, decorato
con perline e lustrini, l'animale alzò la proboscide e piegò la
zampa destra inchinandosi. Un forte barrito risuonò e la musica si
interruppe. Cadde il silenzio, si udiva solo il frusciare vento.
Sophie continuò a camminare, oltre un vecchio caravan in legno,
verniciato di rosso e decorato con motivi di fantasia dorati, vide
una piccolo gazebo, al disotto del quale alcuni tavoli ed alcune
panche formavano la mensa del posto. Lo stomaco della bambina
gorgogliò, lentamente iniziò ad avanzare verso i tavolini, da un
grande pentolone fuoriusciva un profumo che lei riconobbe “è lo
stesso odore dello spezzatino della mamma” disse. Mentre muoveva i
primi passi con la coda dell'occhio le sembrò di vedere qualcuno,
una bellissima donna, dai lineamenti francesi uscì da dietro un
carro, e dopo di lei un'altra identica, le due indossavano un solo
vestito unito all'altezza dell'ombelico, tre eleganti gambe si
mossero con la delicatezza di un balletto. La piccola si voltò senza
smettere di camminare, quattro occhi gentili la guardarono e due
bocche le sorrisero dolcemente. Dopo cinque o sei passi arrivarono
due uomini, uno sulle spalle dell'altro, indossavano dei calzoni
bianchi aderenti e delle canotte a righe bianche e celesti. La
salutarono, alzando la mano e muovendola lentamente. Mano a mano che
proseguiva altri si mostrarono. Una donna con una lunga barba che
indossava un sontuoso vestito zigano. Un clown dal volto bianco e con
delle piccole lacrime disegnate sotto gli occhi. Un baffuto domatore
con dei pantaloni da cavallerizzo rossi e una giacca dai bottoni
d'oro abbinata ai calzoni. Una bellissima donna dai lunghissimi
capelli neri, che ella stessa teneva attorcigliati in un grande
gomitolo. Un muscoloso uomo in tenuta da tarzan. Ed in fine un
elegante nano accompagnato da un uomo altissimo. Sophie era ormai
giunta alla mensa, l'uomo colossale era proprio davanti al calderone
con lo spezzatino. Il gigante prese un piatto, aprì il coperchio del
pentolone, un enorme nuvola di fumo fuoriuscì dileguandosi in pochi
attimi, il mestolo si caricò di cibo e poi ricadde sulla stoviglia
facendo un rumore metallico. La bambina prese il cibo e si sedette
sulla panca, fu allora che tutti gli altri si mossero verso di lei,
disponendosi in cerchio, osservandola con amore.
Tra tutti solo il gigante si
sedette di fronte a lei “Benvenuta, io sono Everet” disse con
voce profonda.
“Buongiorno.. mi chiamo
Sophie” rispose la bambina sorridendo.
Il gruppo la guardava tra la
curiosità e la riverenza.
“Scusaci, era tanto che non
vedevamo una come te...” molti annuirono rimarcando le sue parole.
“Come me?”.
“Uno spettatore! Neanche
ricordiamo quando abbiamo visto l'ultimo...”esclamò con accento
esteuropeo.
“Perché?” chiese
innocentemente.
“non sappiamo perché, forse
abbiamo perso la magia che avevamo un tempo... forse siamo stati
dimenticati...” alcuni chinarono gli occhi malinconicamente.
“Capisco” poi guardandosi
intorno “ma voi chi siete?”.
Tutti furono sgomento.
“Noi siamo il Circo”
spiegò il gigante alzandosi “noi siamo lo spettacolo antico...
siamo la magia che c'è nell'uomo... noi siamo i sogni che divengono
realtà!” poi inspirò fortemente ed alzando le braccia al cielo
disse “NOI SIAMO I DORIA”.
Sophie era perplessa, si
guardò intorno, poi sembrò capire “voi siete la televisione!”.
Ognuno cercò negli occhi
dell'altro la risposta a una domanda che accomunava tutti e che solo
una delle due donne siamesi ebbe il coraggio di porre “cosa è la
televisione?”.
“La televisione porta la
magia nelle vostre case!” rispose la bambina citando uno slogan “
questo è quello che dice il signore della pubblicità!”.
Uno dei trapezisti si avvicinò
al gigante, fece alcuni gesti veloci, Everet annuiva poi si voltò
verso la bambina “i trapeziti chiedono cosa fa la televisione?”.
“la televisione fa vedere le
cose, ci sono le storie, ci sono le persone che cantano...”.
Tutti sembrarono capire.
“Quindi è un cantore! Una
persona che canta e racconta storie!”
“Mannò!” esclamò Sophie
che iniziava ad essere stanca di spiegare una cosa tanto ovvia “non
è una persona, è una cosa.. una scatola di plastica con il vetro da
una parte e dentro ci sono le immagini...”.
La compagnia fu di nuovo
disorientata. Tra tutti loro Egate, l'uomo muscoloso, prese un asta
di ferro “ma sa fare questo?” dopodiché la piegò su sé stessa.
“E questo lo sa fare?”
chiese il clown gonfiando un palloncino e trasformandolo in un
cagnolino.
Dopo di loro altri mostrarono
le loro abilità, le due donne fecero alcuni passi di danza
leggiadre, i trapezisti si cimentarono in alcune acrobazie.
Sophie applaudiva entusiasta.
Quando il piccolo spettacolo terminò Everet le chiese “la
televisione sa fare queste cose?”.
La bambina rispose di no con
la testa. Uno dei trapezisti corse allegro verso la donna barbuta,
dopo averle detto qualcosa con il linguaggio dei gesti, la francesina
disse “Emiliano ha ragione! Facciamo uno show per la nostra
spettatrice!”. La proposta fu accolta con generale felicità.
“E' deciso! Sophie, questa
sera i Doria si esibiranno per te!”.
In meno di tre ore il sole era
tramontato ed ognuno era pronto per esibirsi.
Al centro del palco il gigante
vestito in livrea rossa presentò il primo spettacolo “Benvenuti
allo spettacolo del CIRCO DORIA! Dalla Francia le gemelle Marise e
Michelle Delacroix!” con un gesto ampio del braccio destro si
allontanò dal centro della pista. Le due sorelle entrarono
elegantemente, un faro le illuminava lasciando nel buio tutto il
resto, dopo alcuni passi di danza eseguirono alcune coreografie
snodabili, i loro corpi flessibili e delicati si piegavano e si
attorcigliavano lentamente. Dopo di loro vennero presentati Fernando
il domatore, con i due leoni e l'elefante. Seguì Friedrich il clown,
che creò nuovi animali con i palloncini ed eseguì alcune gag
divertenti. Poi fu il turno di Egate che piegò aste di ferro, ruppe
catene e sollevò oggetti pesanti. In fine arrivarono i trapezisti,
che si lanciarono in pericolose acrobazie volanti.
Sophie rise, si commosse, si
emozionò come non le era mai capitato prima.
Quando lo show si concluse la
bambina applaudì e tutti tornarono sul palco per inchinarsi in un
commosso saluto finale. Sophie era così felice con loro, così tanto
da decidere di fermarsi.
I giorni passarono, ogni sera
c'era uno spettacolo, ogni sera era più bello di quello precedente.
Ma più il tempo passava e più Sophie sentiva la mancanza dei suoi
genitori.
Una mattina mentre aiutava
Marise e Michelle a scegliere cosa indossare sentì una voce lontana.
“Sophie!! Sophie dove
sei?!?” insieme a quella voce che lei riconobbe come quella di sua
madre sentì dei cani abbaiare. La bambina uscì correndo dalla
carovana “è la mamma! È la mamma che mi sta cercando!” gridò
ansimando. Le due sorelle la guardarono malinconiche, sapevano che il
momento di separarsi era vicino. In poco tempo tutti interruppero le
proprie attività, e si avvicinarono alla bambina, ognuno di loro
aveva sentito quella voce chiamarla.
Lei si voltò a guardarli
“devo andare... mamma e papà saranno preoccupati...” tutti la
guardarono tristi, Sophie capì che fare ritorno a casa significava
non poter rivedere il circo. “se me ne vado non potrò tornare,
vero?”. Everet si fece spazio tra gli altri “Si, non potrai più
venire... questo sarà un addio...”. Delle lacrime le scesero sul
viso.
“Ma... ma non è giusto!...”
“Non è una questione di
giusto o sbagliato...” disse asciugandole gli occhi “sei stata
per noi il segno che c’è la speranza …”
Tutti in fila la guardarono
andare via, Everet l'accompagnò per alcuni passi, poi si fermò, si
chinò a terra e le strinse la mano “Non ti dimenticheremo...”.
“Non importa se diventerò
grande, non vi dimenticherò …”ripose sorridendo poi proseguì da
sola.
Improvvisamente Marise e
Michelle urlarono “No, non te ne andare!”.
Ma la bambina era troppo
lontana per sentirle.
Pian piano il paesaggio brullo
divenne una foresta, Sophie continuò a camminare, quando incontrò
lo stesso albero che aveva incontrato mesi prima, aprì la porticina.
Oltre l’apertura si udiva la voce dei suoi genitori che la
chiamavano, si voltò e vide in lontananza il circo, si asciugò gli
occhi umidi poi attraversò la porta.
Nessuno ha più incontrato il
Circo Doria. Qualche bambino racconta di aver visto un albero diverso
dagli altri, ma nessuno ha tentato di trovare la porta con la
maniglia d’argento, tutti sono tornati a casa a guardare la
televisione.
I bambini desiderano ancora la
magia, ma la cercano in un programma tv, nelle loro case, suoi loro
divani, dimenticando che la magia è fuori, nei boschi, negli alberi,
nelle persone.
Degli orsi e degli uomini
Degli
orsi e degli uomini
Per gli orsi l'inverno
era il tempo delle lunghe dormite. Ma, quell'anno, tutto sarebbe stato
diverso. L'estate era stata molto calda e gli orsi avevano
faticosamente trovato le provviste per l'inverno.
Ogni anno quando ad ottobre la
temperatura inizia a scendere, i dodici orsi rossi delle montagne
abruzzesi, si rifugiarono al centro della vecchia foresta. La
foresta, che oggi fa parte del parco nazionale, all'epoca in cui è
ambientato questo racconto, era una distesa di alberi e terre
incolte, e ogni uomo o donna evitava di entrarci; per questo gli orsi
si sentivano al sicuro.
Il dieci di ottobre
mentre tutti e dodici gli orsi dormivano profondamente un rombo riecheggiò nella vallata, svegliandoli bruscamente. Il rumore era partito da un
fucile, ma gli orsi non avevano mai sentito il rumore che fa la polvere da sparo quando eietta un proiettile. Era come un tuono, ma più stridulo, più freddo. Uscirono tutti per capire cosa fosse. Fermi e in silenzio
tesero le orecchie al cielo e subito ne sentirono un altro.
Alcuni di loro scattarono in dietro, verso le loro tane. Altri rimasero con le orecchie tese, e le zampe ben piantate nella neve. Ma vi fù solo silenzio e dopo un'ora tornarono tutti a dormire.
L'indomani un nuovo sparo irruppe nella foresta. Alcuni corvi si librarono. I corvi con alcuni battiti d'ali possono allontanarsi da ogni problema. Lanciando urla rauche che si perdono nel vuoto. Ma, gli orsi, loro non possono volare via, e diciamocelo, loro non vogliono andare via. Così i dodici orsi ormai svegli, si misero in cerchio.
Dopo una lunga riunione
decisero che due di loro sarebbero dovuti uscire a scoprire cosa
fossero quei rumori. Tra tutti vennero scelti il più piccolo e il
più grande di loro. Il più piccolo sarebbe dovuto scendere a valle
mentre il più grande salire a monte.
Dopo un giorno di ricerche
l'orso più piccolo giunse a valle, e tra gli alti aceri vide un uomo
vestito di verde. L'uomo teneva tra le mani quello che l'orso definì come " un tronco di legno rilucente". L'uomo camminava
lentamente affondando i piedi nella neve, fino alle ginocchia. L'orso lo guardò inclinando la testa, benché sapesse che cosa fosse, era la prima volta
che vedeva un animale di quella specie.
"Che strano
animale, ha perso quasi tutto il pelo deve essere malato!" pensò tra sé e sé. Iniziò a seguirlo.
Nel frattempo anche il grande orso trovò un uomano ma questo era vestito di marrone a chiazze " Che buffo animale, si copre di foglie!" pensò e lo seguì.
Il giorno dopo all'alba i
due uomini fecero colazione, mangiarono un pezzo di carne secca e si
rimisero in viaggio. Camminavano lentamente e sempre con il fucile
tra le mani, continuavano a guardarsi intorno. Gli orsi, che come
tutti gli animali sentono la paura, sentivano che i due uomini
avevano terribilmente paura di qualcosa. Ma non capivano perchè, poiché gli esseri più spaventosi nella foresta erano proprio loro!
Mentre l'uomo a valle saliva
quello a monte scendeva. I due orsi conoscevano bene la montagna e sapevano che ogni ora che
passava i due uomini si avvicinavano sempre di più alla tana dove
riposavano gli altri dieci orsi. Ma cosa avrebbero dovuto fare, cosa era giusto fare? Spaventarli, farli scappare o ucciderli. Quando la necessità di proteggere il proprio territorio diventava un motivo giustificabile per uccidere un'altro animale?
Nel tardo pomeriggio del terzo
giorno i due uomini erano ad un solo chilometro dalla tana e l'orso più grande corse ad avvertire i loro compagni. Le sue zampe affondavano nella neve che scrocchiava comprimendosi a sbriciolandosi. Iniziò a nevicare ed in breve
tutto fu ricoperto. A terra la neve brillava e le
divise dei due uomini risaltavano.
L'uomo seguito dall'orso piccolo, si immobilizzò, i suoi occhi iniziarono a muoversi freneticamente, le sue mani strinsero il fucile, la pelle dei suoi guanti stridette a contatto con l'accaio. Aveva visto qualcosa, e ben presto l'orso vide la stessa cosa. A pochi metri di distanza c'era un altro umano, magro, ingobbito con la barba ruvida.
Anche lui lo vide. Si guardarono senza muoversi per un tempo che sembrò infinito, alcuni fiocchi iniziarono a cadere dal cielo. L'orso più grande tornato indietro, li trovò ancora fermi, a guardarsi. Tremavano irrigiditi e contratti. Una zampa affondandosi nella neve puà fare un rumore assordante se c'è silenzio. I due uomini vibrarono all'unisono imbracciando il fucile. Come se il fucile fosse l'estenzione dei loro muscoli. Tremavano le braccia, vibrava il fucile.
Lo videro, era un orso. Per un momento non sapevano più quale fosse il pericolo maggiore. Per un momento loro erano alleati e l'orso era il nemico. E' proprio vero che ci si allea con chi è diverso solo quando si deve combattere qualcosa di maggiormente diverso, questo è estremamente umano.
Un rombo. L'orso fuggì. Rimasero di nuovo da soli. Riscoprirono le loro diversità e nulla sembrò essere cambiato. Anche questo è terribilmente umano.
Le armi erano pronte, loro erano pronti. Alcune urla, senza senso ma piene di odio. Due colpi all'unisono. Come antichi alberi ormai atrofizzati crollarono a terra. Le gambe scomposte, la neve un tempo pura era ormai macchiata. Rosso su bianco come un ombra si espande, poi la terra assorbe tutto senza dire nulla.
L'orso piccolo tornò alla tana. Fù facile raccontare gli avvenimenti, fù impossibile spiegare le azioni. Poi tornarono tutti a dormire, tranquilli.
La terrà inghiottì i resti e alla fine dell'inverno fù come se fosse stato tutto parte di un sogno.
Look, Run and Stop
Look, run and stop
Dreams are Life's placebo.
She wokes up dreaming to sleep.
She looks up but feels down
Nothing more, nothing less
of what she already had
History is just Apocalyp's omen
Mutation againest mutilation
Change or break
Bones on flash
Clash and smash
Time runs witout Fast
'No more runs' she said
She tides up her trainers
Nothing more, nothing less
of what she already done
History is just Apocalyp's omen
Mutation againest mutilation
Change or break
Bones on flash
Clash and smash
Walls can melt too
She stop crashing down
blood on the briks
Nothing more, nothing less
of what she already lost
Dreams are Life's placebo.
She wokes up dreaming to sleep.
She looks up but feels down
Nothing more, nothing less
of what she already had
History is just Apocalyp's omen
Mutation againest mutilation
Change or break
Bones on flash
Clash and smash
Time runs witout Fast
'No more runs' she said
She tides up her trainers
Nothing more, nothing less
of what she already done
History is just Apocalyp's omen
Mutation againest mutilation
Change or break
Bones on flash
Clash and smash
Walls can melt too
She stop crashing down
blood on the briks
Nothing more, nothing less
of what she already lost
Perchè?
Il perché non è importante. Il perché sarebbe ridondante.
Cosa, allora, è veramente importante?
Share - Condividere.
Condividere è importante, anche se questo non riempie il nostro portafogli.
Sbagliare è umano, tanto quanto ridere, quindi se sbaglio perdonatemi come perdonate una risata fuori luogo.
E se persevero, condannatemi con clemenza e affetto.
Non ricerco la forma ma il contenuto. Non rileggo quello che scrivo, ma penso e ripenso a cosa voglio dire.
Cosa, allora, è veramente importante?
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Condividere è importante, anche se questo non riempie il nostro portafogli.
Sbagliare è umano, tanto quanto ridere, quindi se sbaglio perdonatemi come perdonate una risata fuori luogo.
E se persevero, condannatemi con clemenza e affetto.
Non ricerco la forma ma il contenuto. Non rileggo quello che scrivo, ma penso e ripenso a cosa voglio dire.
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